Specchiarsi nel buio: al Modena una storia di violenza e di fragilità con “Roberto Zucco”. La recensione

Di il 31 Ottobre 2024

di Alessia Spinola

GENOVA – Ieri sera il Teatro Modena ci ha aperto una porta verso la società, una porta verso noi stessi: la stessa porta che dal 30 ottobre al 10 novembre il pubblico vedrà sul palco nella scenografia di “Roberto Zucco“, nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova (in coproduzionecon Teatro Metastasio di PratoeRomaeuropa Festival) con la regia di Giorgina Pi e il suo gruppo creativo, il collettivo Bluemotion.

Lo spettacolo, tratto dal testo di Bernard-Marie Koltès, prende spunto dal vero fatto di cronaca di Roberto Succo, giovane ragazzo di Mestre che, dopo aver commesso l’omicidio dei suoi genitori, riuscì ad evadere dal carcere e a commettere tutta una serie di altri crimini, nonostante fosse inseguito dalla polizia di tre stati. Nel 1988 Succo venne di nuovo catturato e messo in carcere, dove si suicidò.

Come Icaro che vola verso il Sole, quella di “Roberto Zucco” è una storia di ricerca di mondi lontani e di fuga da se stessi. Zucco prima di compiere il folle gesto finale, guarda verso il Sole, chiedendosi se anche lui ha un sesso di cui si vergona, e alla sua luce la sua armatura si scioglie, svelando le fragilità nascoste della sua anima tormentata.

Foto di scena (ph: Greta De Lazzaris)

La regista con questa opera conferma la sua visione politica, restituendo al pubblico un testo che ha al suo centro il tema dell’inesorabile diffusione della violenza. In particolare, quella di classe, quella domestica, quella sulle donne e, in ultimo, verso se stessi. Il linguaggio usato da Giorgina Pi non è giudicante e la scenografia e il montaggio delle scene sono molto di stampo cinematografico, richiamando quell’estetica true crime molto in voga al giorno d’oggi.

Foto di scena (ph: Greta De Lazzaris)

La vicenda si svolge nel sud della Francia, in una provincia ambigua e cupa. Tuttavia, emerge con forza l’influenza di Parigi, città che Koltès amava profondamente e dove ha vissuto intensamente. È una città maleducata, dove si respira una libertà selvaggia: i quartieri di Pigalle, Barbès, l’Africa che si mescola al tessuto urbano, il sogno di fuga di Roberto Zucco. Bernard-Marie Koltès incontrò per caso il volto dell’assassino Roberto Succo, intravisto su un manifesto della metropolitana, e seguì con attenzione i fatti di cronaca del 1988, l’anno che segnò la fine della sua vita. (Morirà infatti nel 1989, a soli 41 anni, a causa dell’AIDS). “Roberto Zucco” fu pubblicato postumo e debuttò inizialmente in lingua tedesca alla Schaubühne di Berlino nell’aprile del 1990, con la regia di Peter Stein. Nello stesso anno, venne adattato come radiodramma per France-Culture da Catherine Lemire. In Italia fu presentato per la prima volta nel 1992, in una produzione del Teatro Stabile di Genova con la regia di Marco Sciaccaluga.

In scena Valentino Mannias nel ruolo principale e un cast multiforme composto da attori e attrici, Andrea Argentieri, Flavia Bakiu, Monica Demuru, Gaia Insenga, Giampiero Judica, Dimitrios Papavasilìu, Aurora Peres, Alessandro Riceci, Kevin Manuel Rubino, Alexia Sarantopoulou.

Quella andata in scena ieri sera è un’opera moralmente molto forte, caratterizzata da un grande impatto visivo ed emotivo e capace di dare nuova vita alla storia di Roberto Zucco, trascinando lo spettatore in una spirale di tensione e riflessione. La messa in scena al Teatro Modena, riesce a penetrare le pieghe più oscure della vicenda e a trasformare il teatro in uno spazio dove la violenza, la fragilità e l’inquietudine trovano una rappresentazione sincera e priva di retorica. Questa nuova produzione spinge lo spettatore a interrogarsi su quanto sia sottile il confine tra il bene e il male, lasciandolo con una domanda: siamo davvero poi così diversi da Roberto Zucco?

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Il direttore responsabile di GOA Magazine è Tomaso Torre. La redazione è composta da Alessia Spinola. Il progetto grafico è affidato a Matteo Palmieri e a Massimiliano Bozzano. La produzione e il coordinamento sono a cura di Manuela Biagini

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