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IL RITORNO DEI DECIBEL: «PUNK OGGI COME ALLORA»
A quarant’anni dal primo disco e dai successi “Contessa” e “Vivo da Re”, Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio tornano insieme sul palco per presentare il nuovo album di inediti “Noblesse Oblige”. Appuntamento sabato sera al Teatro della Tosse di Genova.
Nel 1978, mentre in tutto il mondo si sta affermando il nuovo fenomeno rivoluzionario e irriverente della musica punk, grazie a nomi che rimarranno nella storia come Clash, Sex Pistols e Ramones, a Milano esce “Punk”, primo 33 giri di tre amici conosciuti tra i banchi del liceo classico Berchet. Sono i Decibel, gli stessi che due anni dopo si presenteranno a Sanremo in cravatta e occhiali da sole per cantare “Contessa”. Oggi, a quasi quarant’anni di distanza dall’ultimo album, Enrico Ruggeri, Fulvio Muzio e Silvio Capeccia tornano sui palchi di tutta Italia per presentare il nuovo disco “Noblesse Oblige”, uscito lo scorso 10 marzo. Undici brani inediti più due brani storici, “Contessa” e “Vivo da re”, e un tour nazionale che sabato sera toccherà anche Genova, alle 21 al Teatro della Tosse. Enrico Ruggeri ci ha parlato della reunion di uno dei gruppi pionieri del punk in Italia, di come è nato il nuovo disco e di cosa voleva dire essere punk negli anni Ottanta.
Come è nata la reunion dei Decibel e come è nato “Noblesse Oblige”?
«È nata in modo spontaneo, senza pensarci troppo. Volevo fare qualcosa per i miei 60 anni, che significano anche 40 anni dal primo album dei Decibel, 40 anni del punk, 30 anni di “Si può dare di più” e di “Quello che le donne non dicono”. Ho chiesto a Fulvio e a Silvio se avevano dei pezzi da farmi sentire, me li hanno mandati e io ho scritto sopra i testi; lì ho capito che stavamo facendo un album. L’idea era quella di stamparne poche copie da dare agli amici, per festeggiare questa ricorrenza. Ma dopo averlo fatto sentire a un po’ di persone fidate, tra cui un amico che è anche presidente della Sony, “Noblesse Oblige” è diventato un album vero»
Perché la scelta di un tour in spazi piccoli e un cofanetto a tiratura limitata?
«Per questo album ho deciso di fare un marketing “da musica classica”, perché ritengo che oggi il rock sia quello che un tempo era la musica classica. Il rock ha 50 anni e non viene più ascoltato dai ragazzini, non è più la musica della gente che protesta, come negli anni Settanta, è diventato un genere per eletti. Per questo è partita la politica delle mille copie a tiratura limitata e dei concerti in luoghi piccoli. Abbiamo scelto di fare quello che farebbe un quartetto di musica classica».
L’album è stato anticipato dal singolo “My my generation” che nel ritornello ripete “it’s not too late”: anche se sono passati quarant’anni non è troppo tardi tornare a fare musica con i Decibel?
«No, non è troppo tardi, ma è chiaro che in quella frase c’è un po’ di ironia. In realtà abbiamo scelto questo brano come singolo perché è una citazione e un omaggio a tutti i nomi più importanti per noi, dagli Who, ai Sex Pistols, dai Talking Heads a Lou Reed».
Non c’è nulla di “nostalgico” in questo ritorno, ma a un certo punto nella canzone cantate “quella strada non c’è più, non c’è più quel club”. Quanto è cambiato il modo di fare musica e di vivere di musica?
«Quando ho iniziato io si suonava nei club, le band si facevano le ossa e quando diventavano famose si erano già esibite centinaia di volte davanti a un pubblico. Oggi capita il contrario: uno prima diventa famoso e poi inizia a esibirsi, spesso senza essere pronto. C’è una bella differenza, noi avevamo delle fondamenta maggiori. Anche il pubblico è diverso; forse oggi è più informato, perché ha la possibilità di ascoltare qualsiasi cosa voglia. Quando avevo 15 anni compravo un album e ascoltavo solo quello circa una cinquantina di volte. Quarant’anni dopo i primi ascolti, conosco ancora quel disco a memoria. Difficilmente i ragazzi di oggi, a sessant’anni, ricorderanno quello che ascoltano oggi».
Qual è il momento che ricordi con più emozione se ripensi agli anni con i Decibel?
«Sono tanti. Dal punto di vista dell’orgoglio, scelgo la decisione di presentare “Contessa” a Sanremo nell’Ottanta. Siamo stati i primi ad andare al Festival di una certa area. La ricordo come una scelta difficile e non senza conseguenze: i giorni dopo avevo le scritte sotto casa che dicevano “servi del potere” o cose simili. In realtà avevamo ragione noi: due anni dopo anche Vasco Rossi andò a Sanremo, sdoganando chiunque andasse al Festival. Certo, arrivare a Sanremo e trovarsi tutti i gruppi romantici di quegli anni, con il capello lungo cotonato e le voci in falsetto, ci faceva sentire degli alieni. Eravamo davvero diversi da tutti».
Tra i brani inediti e i due grandi successi “Contessa” e “Vivo da re” è sempre molto viva la vostra anima punk. Vi sentite ancora così?
«Sì, senza forzature. È chiaro che le canzoni e i testi sono cambiati: nell’Ottanta la canzone d’amore era “Teenager”, mentre oggi è “L’ultima donna”, che parla di cose ben diverse. Si cantano le cose che si sentono in base all’età che vivi. Per quanto riguarda invece l’attitudine musicale, il gusto di essere contro, di essere diversi dagli altri, coraggiosi, un po’ irriverenti e un po’ snob, sicuramente è rimasto immutato».
Cosa voleva dire essere punk a fine anni Settanta e cosa vuol dire esserlo oggi?
«In quegli anni c’era una generazione intera che veniva ignorata e diceva “visto che non ci considerate, vi obblighiamo a scandalizzarvi al nostro passaggio”: questo era il punk. Oggi è tutto diverso, ma l’atteggiamento di sberleffo al potere e alle convenzioni c’è oggi più di allora. Credo che in un momento come questo, in cui si fanno i dischi con lo stampino, le canzoni sono tutte uguali e il tastierista è diventato una sorta di disc jockey, salire su un palco, prendere gli strumenti e suonare, senza passerella, maxischermi, trucchi ed effetti speciali, forse oggi è la vera rivoluzione. E così sarà il concerto di sabato»
Per info: www.teatrodellatosse.it, www.duemilagrandieventi.it
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