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EMANUELA CAPPELLO AL TEATRO STRADANUOVA RIBALTA LE REGOLE DELLA RISATA: «LA COMICITÀ È UNA RIVINCITA»
L’artista si esibirà a Genova sabato 14 dicembre con il suo show “non vi fa piangere, non vi fa ridere, non vi fa niente”. A pochi giorni dallo spettacolo, Goa Magazine l’ha intervistata, facendosi raccontare l’arte di far divertire (e pensare)
di Alessia Spinola
GENOVA – “Non vi fa piangere, non vi fa ridere, non vi fa niente“: è questo il titolo e la premessa dello spettacolo di Emanuela Cappello, stella della nuova comicità che si esibirà con il suo show sabato 14 dicembre al Teatro Stradanuova (ore 21). Quello che andrà in scena sarà uno spettacolo che, come dice la stessa Cappello mettendo le mani avanti, non dovrà per forza fare ridere, ma anche riflettere su temi di grande rilevanza attuale, come il lavoro o la salute mentale, in un live composto da quattro capitoli in cui predominerà una parte performativa.
Sottolineiamo fin da subito che quello che andrà in scena sabato sera non sarà uno spettacolo di Stand Up Comedy, ma un monologo tragicomico in cui ci si può anche guardare dentro ed esorcizzare i nostri lati più bui e drammatici, in un’alternanza di risate.
A pochi giorni dallo spettacolo, Goa Magazine ha intervistato Emanuela Cappello, la quale ci ha raccontato l’arte di far ridere (e pensare)
Cosa deve aspettarsi il pubblico dallo spettacolo?
Il pubblico non deve aspettarsi sicuramente uno spettacolo di stand-up, ma uno spettacolo monologo tragicomico, più che altro. Quindi non si ride sempre, a volte si ride, a volte si sta un po’ più seri. Questo è per me importante come messaggio perché spesso mi scambiano come stand-up comedian, ma non lo sono.
Da dove nasce l’idea per questo spettacolo?
L’idea è nata da una serie di monologhi che ho portato avanti nell’ultimo anno e mezzo. Sono tutti monologhi che portavo in giro, anche negli open mic, quindi anche nell’ambiente della stand-up, però comunque con una una visione più grottesca e performativa. La differenza è che all’interno dei monologhi, perché lo spettacolo è fatto di quattro capitoli all’interno dei quali c’è un tema che vanno a sviluppare, c’è una parte performativa, quindi più legata allo spettacolo comico e non al microfono con io che parlo e basta. Ci sono questi momenti un po’ più spostati, più irreali. L’idea mi è nata per una serie di vicende vissute, affronto il tema del lavoro, della working class: avendo lavorato tanto in ambienti vari, come cameriera o commessa, a volte pagata a nero, affronto il tema anche noto ai giovani dello sfruttamento. Poi c’è la questione delle relazioni, che è un tema di cui mi occupo soprattutto nei social, e del benessere psicologico, anche quello affrontato in una chiave un po’ più leggera. Sono tutti temi pesanti miei che ho dovuto necessariamente girare per esorcizzarli anche a me stessa, e spero di farlo anche per gli altri.
Il titolo dello spettacolo è molto evocativo e sembra non voler soddisfare alcuna aspettativa: cosa vuole trasmettere con questa frase? È un modo per svincolarsi da ogni responsabilità oppure una forma di libertà artistica?
Direi tutte e due, perché c’è questa cosa che bisogna far ridere a tutti i costi, sempre e comunque tutti vogliono ridere. Possiamo ridere, ma fermiamoci anche un attimo. Può anche non succedere niente, posso anche uscire da teatro e non essere cambiato. C’è questa aspettativa del pubblico che mi innnervosisce a volte. È anche una parte di me che è un po’ insicura e che rispecchia il mio personaggio che mette le mani avanti. Però sì, è anche un titolo indicativo soprattutto per questa moda di questo periodo della stand-up, quindi se io metto questo titolo, almeno non invoglio quelli che vogliono vedere la stand-up.
Se il pubblico, come dice il titolo, non provasse davvero nulla, lo considererebbe un successo o un fallimento?
Un successo. In genere non succede, ci sono invece tante persone che poi sono contente dopo e che mi dicono che piacciono anche i momenti un po’ più profondi e di riflessione, quindi evidentemente funziona.
In un periodo in cui la Stand Up Comedy è diventata molto popolare e onnipresente, secondo lei c’è il rischio che questa perda il suo impatto e la sua autenticità?
Sì, nel momento in cui la fanno tutti e affrontano tutti, non dico gli stessi temi, ma con gli stessi sketch, le stesse battute e non c’è una proposta alternativa, sì, potrebbe essere un rischio. Ormai la stand-up la fanno anche nella pizzeria sotto casa, quindi è un po’ rischiosa questa cosa. Poi ci sono delle linee, per esempio anche in Italia, di artisti bravissimi, cioè di stand-up comedians veramente esilaranti, che però hanno una loro identità molto forte e per questo sono bravi, per questo sono seguiti. Il rischio è quello dell’imitazione di quest’ultimi: ogni volta che c’è una cosa che funziona si vuole imitarla, anche nei trend su TikTok, se un video o uno uno sketch funzionano lo vogliono fare tutti. Questo è un po’ noioso e secondo me poi purtroppo un po’ si spegne la cosa ed è un peccato. La cosa che mi colpisce in questo periodo storico è che è pieno di copioni. Adesso copiare è lecito, avere idee originali non va più bene, bisogna copiare.
Spesso il teatro e la comicità sono uno specchio della società. In che modo questo spettacolo riflette il nostro presente?
Secondo me ci sono dei momenti in cui c’è una certa disperazione che io affronto girando, cioè la giro. Se c’è una situazione tragica deve diventare ancora più tragica e assumere altre fattezze non reali per esorcizzarla. Anche l’aspetto della salute mentale, io posso stare male, no? Allora, sto male e davanti ai motivatori, io invece di reagire, mi butto per terra e sto zitta. Questa cosa fa un po’ sorridere. Tutto quello che devo fare adesso nella mia vita, come essere per forza performativo, brillante e perfetto, è fare proprio il contrario, mi ribello, e questa cosa diventa buffa perché appunto il contrario è quello che io magari mi butto per terra, sto lì e non faccio più niente, no. Quindi rifletto il presente ribaltando una situazione di disperazione in una situazione grottesca. La comicità è una rivincita, la vita è deludente, è terrificante, è una valle di lacrime, però la comicità ti dà quella chiave di vendetta e ti fa vedere le cose da un altro punto di vista, ti fa ridere di te, e questo sì, penso che il mio spettacolo lo faccia.
Quanto è diverso fare comicità sui social rispetto a farla a teatro? Cosa si prova a passare dall’avere una platea virtuale a una dal vivo?
Beh, è una cosa completamente diversa, il linguaggio virtuale è molto diverso, quindi anche molto più, almeno per me, semplice, perché c’è un format, la durata è di un minuto, non hai a che fare con lo spettatore, puoi girare più volte la stessa cosa e c’è un tempo diverso, cioè il tempo anche di comprendere e capire quello che il pubblico vuole, anche se io non sono molto d’accordo sull’assecondare troppo il pubblico, però i social ti mettono molto a contatto con questa cosa. Tu fai tanti tentativi e c’è un’interazione, però un’interazione in cui non c’è il pubblico davanti a te. Il teatro è diverso perché, secondo me, bisogna avere una preparazione attoriale e avere una preparazione da performer. Poi il pubblico è live, ed è molto più rischioso avere un pubblico live, perché puoi non fare ridere, puoi non piacere al pubblico, il pubblico si può distrarre: è una dimensione completamente diversa, lì ti giochi veramente tutto.
Esibirsi davanti a un pubblico a teatro la fa sentire più giudicata rispetto ai commenti che potrebbero arrivare sui social quando posta un video?
Sì, assolutamente. Mi sento più giudicata a teatro perché il teatro è vero, siamo nel qui ed ora e c’è il pubblico presente: se io sono una pippa il pubblico se ne accorge, non è stupido, anche il pubblico che non è abituato ad andare a teatro, che è quello più importante in realtà. Anche i bambini sono importanti, se non ci credono te lo dicono. Il teatro è terrificante, io prima di andare e di di fare gli spettacoli sto malissimo, ho tantissima ansia.
Ha per caso un rito scaramantico che fa prima di andare in scena?
Cammino tantissimo, non mi fermo mai, mi consumo completamente. Non mi fermo, sto lì e fumo una sigaretta elettronica.
Oggi nella comicità si parla di politically correct e si sta molto attenti a non offendere nessuno. Lei cosa pensa a riguardo? Pensa che si possa davvero fare comicità ed essere al tempo stesso “corretti”?
No, secondo me non si può essere mai corretti facendo comicità, è assurdo pensare che un comico debba essere corretto, anche perché non ci sarebbe la comicità. Poi, secondo me c’è un modo: i comici bravi possono essere assolutamente non politically correct, per esempio, Ricky Gervais è uno che dice delle cose terrificanti, però è un genio e lo può fare perché usa un linguaggio giusto e intelligente, costruisce le sue cose in modo molto raffinato. Poi, però, ci sono quelli che vanno sul palco e devono per forza parlare di pedofilia o di preti, però non sono bravi, risultano sgradevoli e non dovrebbero farlo. Forse quelli che non sono bravi non dovrebbero assolutamente occuparsi né di fare comicità né di fare battute o schierarsi contro il politically correct.
Progetti futuri?
In realtà ancora no, però ci sto pensando in questo periodo. Sto avendo un periodo un po’ particolare in cui non mi piace più niente di quello che faccio, quindi devo rivoluzionare questa cosa, però non dico ancora niente perché c’è una futura collaborazione sicuramente, però non dico ancora nulla.
EMANUELA CAPPELLO
Emanuela Cappello, classe 1991, è una stellina della nuova comicità italiana. Conta 90 mila followers su Instagram e 30 mila su Tik Tok. Ha raggiunto la notorietà con i suoi seguitissimi e apprezzatissimi reel. Porta in live il suo show, che non promette niente di buono: “NON VI FA PIANGERE, NON VI FA RIDERE, NON VI FA NIENTE.”
Su Redazione
Il direttore responsabile di GOA Magazine è Tomaso Torre. La redazione è composta da Alessia Spinola. Il progetto grafico è affidato a Matteo Palmieri e a Massimiliano Bozzano. La produzione e il coordinamento sono a cura di Manuela BiaginiMessaggi correlati
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