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ELISABETTA POZZI È “CASSANDRA” AL TEATRO DUSE: «LEI VEDE L’OVVIO MA NESSUNO LE CREDE. OGGI ACCADE LO STESSO»
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Lo spettacolo andrà in scena dal 19 al 23 febbraio. In questa intervista, l’attrice racconta il percorso artistico e umano che l’ha portata a dare nuova vita alla profetessa inascoltata, riflettendo sul senso del teatro oggi e sul bisogno sempre più urgente di fermarsi ad ascoltare ciò che non vogliamo vedere
di Alessia Spinola
GENOVA – Elisabetta Pozzi torna a vestire i panni di Cassandra in uno spettacolo che, anno dopo anno, continua a sorprendere e a risvegliare coscienze: “Cassandra o dell’inganno“. Dal mito greco al presente, la voce della profetessa inascoltata diventa uno specchio della nostra epoca, un monito che risuona con forza nei teatri di tutta Italia e che farà tappa al Teatro Eleonora Duse dal 19 al 23 febbraio. In scena, solo la parola e la musica, essenziali e potenti, a creare un viaggio che attraversa il tempo e la storia, spingendo il pubblico a guardare oltre le illusioni contemporanee. Lo spettacolo è una coproduzione del Nazionale di Genova con il Centro Teatrale Bresciano (foto in copertina di Ilaria Vidaletti).
Elisabetta Pozzi porta in scena una figura di densa e potente modernità, in cui convivono forza e fragilità, dando corpo e voce a un personaggio indimenticabile. Il mito di Cassandra prende nuovamente vita sotto i nostri occhi, fino a prefigurare, nel potente epilogo scritto a quattro mani con Massimo Fini, un futuro incerto per la nostra civiltà orfana di identità, in cui l’uomo moderno – con la sua incapacità di porsi dei limiti – “è ormai diventato un minuscolo ragno al centro d’una immensa tela che si tesse ormai da sola, e di cui è l’unico prigioniero”. Il compositore Daniele D’Angelo ha creato una partitura musicale e sonora originale e raffinata, che sottolinea e attraversa lo spettacolo intrecciandosi alle parole alte, ipnotiche e profondamente contemporanee di Cassandra
In questa intervista, l’attrice racconta il percorso artistico e umano che l’ha portata a dare nuova vita a Cassandra, riflettendo sul senso del teatro oggi, sull’incapacità diffusa di immaginare un futuro diverso e sul bisogno sempre più urgente di fermarsi ad ascoltare ciò che non vogliamo vedere.
Cosa bisogna aspettarsi dallo spettacolo?
Lo spettacolo sorprende sempre, ogni volta che viene ripreso. La prima edizione risale al 2011 e per diversi anni è stato rappresentato principalmente nei teatri di pietra, come Selinunte, Agrigento e Ostia, luoghi che conferivano un legame speciale alla narrazione. La storia parte dal mito di Cassandra per arrivare alle Cassandre di oggi, uomini e donne che hanno percepito i segni di una fine imminente, spesso ignorati da chi, accecato dalla vita quotidiana, non riesce a vedere ciò che sta accadendo. Inizialmente lo spettacolo includeva danza e mimo, ma col tempo ci si è resi conto che la vera forza stava nell’ascolto della voce di Cassandra. Così è diventato un monologo, accompagnato solo dalla musica, che non è semplice sottofondo ma parte integrante del racconto, capace di creare luoghi e tempi. Dal 2018, lo spettacolo ha cambiato forma e contenuto, adattandosi al presente e ai luoghi in cui viene rappresentato. L’incipit spesso trae spunto dalla storia locale, rendendo ogni rappresentazione unica. Non offre soluzioni ai problemi, ma riflette sui temi eterni: l’umanità che, ciclicamente, perde il senso della misura, cade nell’arroganza e diventa cieca di fronte alla realtà, proprio come accadeva nell’antichità. Questa capacità di adattarsi e di risvegliare una consapevolezza sopita è ciò che rende lo spettacolo sempre vivo e sorprendente.
Nel suo spettacolo, emerge una visione potente e inquietante del futuro, in cui l’uomo moderno sembra prigioniero di un sistema che ha creato ma non controlla più. Come può il teatro, attraverso figure archetipiche come Cassandra, offrire uno sguardo critico per riscoprire un senso di identità collettiva?
Il nostro intento è sempre stato quello di offrire un campanello d’allarme, non consigli, ma un invito a riflettere. Spesso il pubblico è ricettivo: capisce che si tratta di un avvertimento che riguarda tutti. Lo spettacolo nasce da un’esperienza personale: l’incontro immaginario con Cassandra a Micene, prigioniera di Agamennone dopo la distruzione di Troia, ingannata dal famoso cavallo. Partendo dal mito, attraverso testi di Eschilo, Virgilio, Seneca ed Euripide, Cassandra si ritrova intrappolata in una gabbia, costretta a vedere il presente e il futuro imminente. La narrazione fa un parallelo tra il cavallo di Troia e i “falsi doni” che ogni civiltà accetta, credendo di ricevere un beneficio, ma che finiscono per diventare la causa della propria rovina. Così, oggi, siamo intrappolati in una rete che abbiamo tessuto noi stessi, affidandoci a qualcosa di cui ormai abbiamo bisogno come il pane e l’acqua, ma che ci allontana dalla nostra umanità.
Cassandra è una figura che, pur avendo il dono della profezia, non viene creduta. In che modo questo tema risuona con le dinamiche della società contemporanea?
Oggi è difficile condurre una discussione limpida, non solo sui social, ma in generale. Ci si accorge dolorosamente di un pensiero dominante da cui sembra impossibile distaccarsi, accettando regole e scelte che non sempre sarebbero state le più giuste. Chi non si rende conto di questo resta cieco, incapace di ascoltare chi prova a indicare strade diverse. L’immagine che emerge è quella di rane nell’acqua fredda, che senza accorgersene vengono lentamente bollite. È questa sensazione di assuefazione e mancanza di consapevolezza che lo spettacolo cerca di scuotere, invitando a vedere oltre il velo del pensiero unico.
Lei ha interpretato numerosi personaggi mitologici femminili, come Elettra e Medea. Cosa rende Cassandra unica rispetto a queste figure, e quali sfide ha incontrato nel portarla in scena?
Ognuno racconta un frammento dell’essere umano, con le sue luci e ombre. Cassandra è il ruolo più delicato: il dono della preveggenza è accompagnato dalla maledizione di non essere creduta, punizione di Apollo per aver respinto il suo amore. La sua disperazione è unica, priva di speranza, perché sa che la fine di Troia è imminente, sente le armi dentro il cavallo, vede l’ovvio, ma nessuno le crede. Questo dolore non è solo nella previsione della tragedia, ma nella condanna a essere ignorata, considerata pazza. La storia si ripete: grandi intellettuali, da epoche lontane, hanno lanciato avvertimenti, inascoltati. La ciclicità di espansione e distruzione è quasi inevitabile, ma il vero dramma è che questa fine dipende sempre dalle azioni degli uomini del proprio tempo. Anche oggi, conosciamo le cause delle guerre, come sempre legate a interessi di conquista, eppure il ciclo continua, provocato dagli stessi esseri umani.
Nella sua carriera ha spesso affrontato i grandi archetipi del mito. Come si è evoluto il suo approccio a queste figure nel corso degli anni?
Ogni volta che si affronta un personaggio come questo, si scoprono nuove sfaccettature, si cambia, cambia l’intorno, mentre la potenza del racconto resta intatta. Le “Troiane” di Euripide, rappresentate nei momenti di guerra, dal Settecento fino alle guerre mondiali, hanno mantenuto una forza straordinaria: testi di 2500 anni fa, della grande epoca tragica della Grecia, che non necessitano di essere modificati per risultare attuali. Quelle parole antiche restano valide, adattabili, senza perdere il loro senso profondo.
Cassandra è vista come una figura tragica e inascoltata. C’è un aspetto di speranza o resilienza nel suo ritratto di questo personaggio?
Cassandra è una figura tragica, inascoltata, difficile da immaginare con speranza. Alla fine di ogni epoca si percepiscono i segni di una rinascita, ma l’umanità sembra incapace di imparare, bloccata in un circolo vizioso di disimparare immediatamente ciò che ha appreso. Non c’è via d’uscita per lei. Nel testo che propongo, uso versi di Eliot: “Nel mio principio è la mia fine”, che suggeriscono l’ineluttabilità del divenire umano e naturale. Quando si forza troppo il mondo naturale, esso si vendica, e questa forza, più grande di noi, si manifesta inevitabilmente, ricordandoci la nostra fragilità.
C’è un messaggio particolare che spera che il pubblico si porti a casa dopo lo spettacolo?
Quest’anno abbiamo fatto un mese e mezzo di repliche nei teatri delle grandi città, un’esperienza nuova rispetto ai festival estivi nei grandi teatri greci. Siamo stati a Parma, Brescia, Palermo, Trieste e presto saremo a Milano. A Parma, in un teatro molto grande, abbiamo riempito due serate da 500 posti, con persone che l’avevano già visto: incredibile. Anche a Brescia abbiamo esaurito, ed era pieno fin dal primo giorno, cosa sorprendente. L’anno scorso, nei centri più piccoli, c’era qualche difficoltà iniziale, ma poi lo spettacolo partiva. Quest’anno il successo è stato impressionante e mi ha colpito molto. Non è importante che parlino bene di me, ma che il testo abbia questa presa, che le persone sentano il bisogno di ascoltarlo e ci rimuginino. Dopo lo spettacolo ho incontrato persone profondamente toccate. Se questo riesce a far pensare a certe scelte, è un risultato importante. In particolare, quest’anno i ragazzi, anche molto giovani, sono stati incredibilmente attenti, cosa che non accadeva fino a poco tempo fa.
Lei si occupa anche della direzione didattica della Scuola di Recitazione Mariangela Melato del TNG: com’è lavorare con i giovani oggi? Quali sono le principali difficoltà e le più grandi soddisfazioni?
L’arrivo delle nuove generazioni è sempre sorprendente, ma negli ultimi tempi emerge una difficoltà crescente: l’incapacità di immaginare. C’è come un blackout, un’incapacità di proiettarsi altrove, di liberare l’immaginario. Questo rende complesso il lavoro di chi cerca di far esplodere la creatività nei giovani, permettendo loro di trasportare il pubblico con la forza del racconto, senza essere sempre se stessi in scena. Per affrontare questa sfida, ho proposto di estendere il corso a tre anni, con un primo anno quasi propedeutico, dedicato a liberarsi da protezioni e dare ali all’anima e al pensiero. Sta dando buoni risultati: non devono dimostrare di essere bravi, ma di essere liberi di immaginare. Questo blocco creativo, credo, nasce dal mondo digitale che ha spietatamente invaso la loro vita, impedendo il gioco creativo e spontaneo di una volta. Le vere soddisfazioni spesso arrivano dopo: alcuni ex allievi, usciti da due o tre anni, lavorano con grandi registi e fanno grossi passi avanti. La soddisfazione è vedere come approcciano il mondo del lavoro, diventando autonomi e proponendo progetti propri, stimolati a partecipare attivamente, non solo a eseguire.
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Il direttore responsabile di GOA Magazine è Tomaso Torre. La redazione è composta da Alessia Spinola. Il progetto grafico è affidato a Matteo Palmieri e a Massimiliano Bozzano. La produzione e il coordinamento sono a cura di Manuela BiaginiMessaggi correlati
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