Vita pubblica e privata di un mito: Andy Warhol al Teatro della Tosse

Di il 24 Gennaio 2019

GENOVA – A trent’anni esatti dalla scomparsa del grande artista americano, il Teatro della Tosse dedica uno spettacolo ad Andy Warhol (Pittsurgh, 1928 – New York, 1987).

Dal 24 al 27 gennaio, ore 20.30 (domenica ore 18.30) al Teatro della Tosse lo spettacolo “Andy Warhol Superstar”, testo e regia di Laura Sicignano con Irene Serini, prodotto da Teatro della Tosse e Teatro Cargo.

Lo spettacolo sarà poi in scena a Milano al Teatro Litta dal 5 al 10 febbraio, ore 20.30 (domenica 16.30).



Con lui si apre l’epoca dell’arte contemporanea, così come la intendiamo oggi. Se nel calendario della musica pop c’è un ante e un post Beatles, l’unico fenomeno culturale e mediatico degli anni Sessanta in grado di rivaleggiare con Warhol, allo stesso modo in quello dell’arte dobbiamo parlare di un “Before Andy” e di un “After Andy”. Soprattutto, Andy Warhol è stato capace di intuire e anticipare i profondi cambiamenti che la società contemporanea avrebbe attraversato a partire dall’era pop, da quando cioè l’opera d’arte comincia a relazionarsi quotidianamente con la società dei massmedia, delle merci e del consumo. Nella Factory, a New York, non solo si producevano dipinti e serigrafie: si cambiava la storia del costume, si faceva cinema, musica rock, editoria, si attraversavano nuovi linguaggi in una costante ricerca d’avanguardia.  

Lo spettacolo indaga la biografia intima di Andy a confronto con quella pubblica: la sua curiosità per tutto ciò che era trasgressivo ed estremo e la sua fede cattolica, il rapporto con la madre, con gli USA, con i soldi e il potere, con il sesso e la castità. La sua vita è una fiaba  sinistra in cui un bambino povero è trasformato in un principe delle tenebre che soccombe alla solitudine e alla tristezza, in mezzo ad una folla stravagante di cortigiani pazzi. Oppure Andy fu uno straordinario self made man capace di costruirsi un’immagine pubblica in grado di vendere milioni di dollari?  

Le parole di Laura Sicignano sullo spettacolo

“Iniziamo dalla morte. AW, dopo una vita eccezionale, morì per una banale malattia a 58 anni. Alla sua morte lasciò 612 time capsules, ovvero 612 scatole di cartone sigillate con la disposizione che fossero aperte 30 anni dopo. Aveva iniziato a confezionare queste scatole poco dopo aver subito un attentato quasi mortale da parte della femminista lesbica Valerie Solanas, che gli sparò al petto in nome del proprio manifesto per l’eliminazione del maschio. Andy sopravvisse all’attentato. Le scatole contenevano oggetti della sua quotidianità, un percorso misterioso della memoria, un diario di cose inutili, in un ossessivo accumulo di oggetti senza graduatoria. Come lo erano gli oggetti da lui ritratti, appartenenti per lo più alla sua infanzia piccolo borghese, di bambino malaticcio e iperprotetto da una madre stravagante, arrivata dal paesino di Mikova, dal secolo precedente, dalla Storia, per rincorrere il sogno americano. Il legame con le sue radici slave viene reciso drasticamente da AW che aderì in pieno al costume USA, diventandone un esponente emblematico. 

Consumo, denaro, trasgressione, moda, morte sono le linee che attraversano il nostro spettacolo.

“Tutto ciò che faccio ha a che vedere con la morte”.

Dopo un esordio come grafico pubblicitario, la sua opera diviene ben presto popolare. Ma ciò che fa di Andrew Warola Andy Warhol è la costruzione della sua personale icona: se stesso come opera d’arte. A partire dalla trasformazione del suo aspetto di ragazzo brufoloso e calvo in una maschera iconica inconfondibile. 

“Quella stravagante checca proletaria tutta pelle ed ossa con la sua parrucca d’argento”. 

Facevano parte di lui ed erano al tempo stesso sue opere le “Superstar”, ovvero i personaggi spesso votati all’autodistruzione, che popolavano le pazze feste alla Factory: Edie, la fragile ereditiera anoressica, morta suicida nell’indifferenza dell’adorato Andy. Freddi Herdko, gettatosi dalla finestra durante una sua performance. Brigid, l’amica di sempre, che lo perseguitava con ossessive telefonate di inutili ciance, per entrambi un modo per riempire il vuoto dell’affollata solitudine delle loro vite. Gerard Malanga, il fedele amante e assistente, che gli regalò idee e aiuto, senza chiedere nulla. Nico, la teutonica venere, glaciale icona dei Velvet Underground, da lui scoperti e prodotti, in un intreccio tra droga, glamour, sadomasochismo, sperimentazione artistica. 

Queste e altre comparse popolano lo spettacolo, come palloncini d’argento destinati all’effimero. 

“In futuro ciascuno sarà famoso per quindici minuti”.

Nessuno interpreta nessuno. L’attrice si immerge in un ludico anti-racconto, dove la musica elettronica, creata a partire dalla sua stessa voce, dai rumori di scena e da un’unica canzone (Sunday Morning dei Velvet Underground) dialoga con la recitazione; lo spazio scenico viene smontato in forme e colori come un’opera d’arte contemporanea e infine distrutto; il video e le luci citano, senza riprodurlo, il mondo di AW, creando fluttuanti, lisergiche atmosfere. Tutto si impasta, rimanda, gioca, crea cortocircuiti di senso, non rappresenta mai. Al tempo stesso, nulla di quel che viene detto è falso o inventato: davvero una signora sparò ai quadri di AW e lui li ribattezzò, per rivenderli a prezzo maggiorato. Davvero Valerie Solanas sparò a AW. Davvero sua madre disse. “Io sono Andy Warhol”. Eccetera. E’ tutto vero. Ma cosa è vero?

“E senza dubbio il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere”.

Negli Anni Sessanta AW, con ironico nichilismo, tratta del rapporto tra arte e mercato, della società dello spettacolo, precorre il protagonismo a tutti i costi, la supremazia dell’immagine, la colonizzazione culturale dell’Impero Americano e la sua decadenza. 

“Fare tanti soldi è la miglior forma d’arte”. 

Gioca con leggerezza e intelligenza con l’arte come prodotto commerciale e ripetibile in serie e con l’idea che la rappresentazione del reale si confonda con la realtà. 

AW fa esplodere l’Io, il Senso, il Senso dell’Arte in milioni di frammenti, display luminosi, schermi televisivi, Polaroid e lustrini.

Questo spettacolo non vuole, non può, rappresentare AW o la sua opera, ma si ispira liberamente ad entrambi in forma non narrativa, ma libera, non logica, ma analogica, come una serie di quadri di un’esposizione POP. Le scene sono titolate come alcune sue opere. Si procede in disordine poetico. Dalla morte alla madre, anch’essa chiusa in una scatola time capsule.

AW nello spettacolo è infantile e violento, amorale più che immorale, un buffone e un genio. Per noi non muore, ma si rende immortale e iconico, self made man, prototipo americano riproducibile all’infinito, che ascende in apoteosi, ma senza Grazia. Superstar, ma come Jesus Christ, quello del musical, avendo gettato via il Sacro e la profondità.

“Non c’è niente da dire su di me. Non sto dicendo niente in questo momento. Se volete sapere tutto su Andy Warhol, vi basta guardare la superficie: dei miei quadri, dei miei film e della mia persona. Dietro non c’è niente”. 

Per info

www.teatrodellatosse.it

C.S.

Su Redazione

Il direttore responsabile di GOA Magazine è Tomaso Torre. La redazione è composta da Alessia Spinola. Il progetto grafico è affidato a Matteo Palmieri e a Massimiliano Bozzano. La produzione e il coordinamento sono a cura di Manuela Biagini

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